sabato 27 aprile 2019

Una casa tutta per lei : 21 racconti sulla memoria delle stanze





E' appena uscita questa raccolta di racconti curata da Valeria Bianchi Mian ed Emma Fenu edita da Golem.
Ispirata a ciò che per ognuna di noi significa "casa".
Dentro ci trovate anche un mio racconto sui cortili d'infanzia.
Vi lascio il  la sinossi e il Link
A presto con un'altra sorpresa :)

La casa è il mondo. È il fuori e il dentro, è lo spazio che contiene la gestazione del Sé, il luogo in cui i ricordi si stagliano come dipinti alle pareti. Ci sono storie che attraversano il tempo; ci sono prigioni dell'anima che hanno segnato la pelle, cicatrici che nessuna saponetta potrà mai cancellare. Ci sono asciugacapelli che silenziano il contesto. Ci sono barattoli stracolmi dei baci delle madri. Odori e profumi nelle cucine. Rumori e musiche. Bottiglie che tintinnano mille storie e antiche favole. C'è una culla e c'è un carillon che suona. Ci sono le fotografie che mostrano altre case e altre narrazioni. C'è un caminetto che pulsa come un cuore rosso al centro del tutto, come in un sogno degno di Alice nel Paese delle Meraviglie, quando l'anima si fa piccola e grande nell'ambiente. La silloge raccoglie i racconti di 21 donne residenti in Italia e italiane espatriate; alcune di queste donne sono scrittrici professioniste, altre semplici appassionate di scrittura, ma tutte hanno voluto accogliere l'idea di far trasparire nella pagina scritta l'idea della dimora - la memoria delle stanze - con lo stesso impulso che spinge alla narrazione orale genuina e priva di artifizi. Tramite un susseguirsi di immagini e incursioni nel mondo del ricordo, le autrici svelano i segreti di un'anima in cerca di se stessa, ventre mai sazio di relazioni affettive, luogo sacro e profano che prende il nome di "casa".

giovedì 21 febbraio 2019

Sai tenere un segreto?




Salone estetico, interno giorno.

Spaparanzata su una poltroncina, osservo una graziosa fanciulla trafficare con lime d'acciaio, buffer opacizzanti e ammennicoli vari, nel tentativo di riportare il mio letto ungueale all'antico splendore.

Mi ha giurato che, dopo il trattamento, avrò unghie laccate e inossidabili, artigli prêt-à-porter che mi apparterranno fedeli per minimo trenta giorni, festivi inclusi.

Qualunque cosa succeda. 

Ho già voglia di  testarle, avviando una carriera come procacciatrice amanuense di radici commestibili (il daikon e la curcuma, del resto, tirano da paura).

"Hai già deciso di che colore le vuoi?" mi chiede la donzella, tormentandomi le cuticole con un bastoncino d'arancio.

Mi guardo intorno in quel girotondo cromatico di boccette e vanità: il nero dark emotion (che scarto subito, fa troppo giudice x factor), il delicato soft nude (che sta per tinta pelle manco abbronzata), il rouge Matte (il solito rosso che portava pure mia nonna, buonanima) e un violetto sfigato a cui è toccato il nome di prugna polveroso (bocciato, mi fa starnutire solo il pensiero).

Naufrago indecisa quando, finalmente, metto a fuoco una sfumatura incantevole. Non si tratta di uno smalto ma di un paio di occhi cartone, verde acqua e Photoshop, inquietantemente familiari.

Io lo conosco quello lì.

Ma non era sparito dalla circolazione?

Okay che siamo nel post campagna elettorale però era un po' che non si vedeva in giro. Fortunatamente.

Anche perché, dal primo giorno in cui è apparso, plasmato dalla Santa costola di Maria De Filippi e ha poggiato le chiappe su un Trono cremisi, non si è mai capito bene cosa avessimo fatto di tanto grave per meritarcelo. Insomma c'erano già state le cavallette, le locuste, le ulcere e tutte quelle robe lì.

Qui la faccenda è  grave visto che ora il Tronista Redivivo mi fissa a un palmo di naso, il bel faccione cartonato, l'indice sulle labbra-canotto, sussurrandomi in corsivo/allusivo "Sai tenere un segreto?"

Aguzzo la vista, porca miseria sto diventando presbite, guardo meglio la locandina per intercettare una didascalia, un body copy, due righe per capire di cosa accidenti stiamo parlando. 
Chi vuoi che lo scelga uno così come testimonial?

"Ma quella pubblicità cos'è?" chiedo mentre la soave fanciulla imprigiona la mia mano destra in un fornetto laser e mi scoppia in faccia un palloncino alla fragola.

"Ah quella. La crema per la patata." risponde spontanea.

"Scusa?" Strabuzzo gli occhi e arriccio le dita.

"Sì, per la patata. E' una novità. Ha pure l'acido ialuronico eh. Quello fa effetto seta e rinfresca pure."

"Ma non c'era già Chilly menta piperita per quello?"

"No, no che c'entra. Questa è un altra cosa" afferma decisa mentre anche la mano sinistra finisce al grill "Tu questa la devi usare come un antiage. Solo che al posto di metterla sulle rughe del viso te la metti..."

"Sì, sì, okay, chiaro. Ho capito." la interrompo. Prima che sia troppo tardi.

Sullo scoccare del timer acquisisco una nuova certezza: ecco a voi la crema rassodante per tuberi di ogni età. Per il trattamento cosmetico "delle zone intime" spiega alacremente il bugiardino, caso mai la memoria, come la zona bikini, iniziasse a perdere tonicità. 
Niente paura. Adesso abbiamo la soluzione: grazie a questo prodigio scientifico avremo tutte patate sode in abbondanza. Senza nemmeno bollire l'acqua. 

Dobbiamo annunciarlo al mondo. O forse no. Forse questa volta ha ragione Il Redivivo.

Meglio, molto meglio, mantenere il segreto.


ps.  per la cronaca  il tipo lì, quello della costola, ha circa 40.000 followers. 



sabato 8 dicembre 2018

Le Confessioni del pastorello



La Magia delle Feste riserva sempre gradite sorprese.
No, non sto parlando dell’agendina in similpelle datata – ops! – 2013 che vi è giunta in dono impacchettata di fresco e spacciata spudoratamente per nuova.
E nemmeno dei cioccolatini, incarto purpureo e sfavillante, maraschino e ciliegie, che appena messi in bocca (siete impavidi eh?) vi frantumano un molare con il nocciolo duro, unico superstite perché il guscio di cioccolato si è estinto diversi Natali fa. E il liquore idem.
C’è qualcosa che va oltre tutto questo, a cui calza a pennello il cappello diabolico Creatività Festiva.
Ovvero l'incitamento subdolo di qualche folletto maligno che ci induce, oltre ad essere più buoni e grassi, anche diversamente artisti. Proprio noi, che manco una sorpresina Kinder sappiamo montare. Che piuttosto che fare un pacchetto da soli – ma sapete quanto è difficile andare dritti con la forbice senza decapitare  i babbi natale? – ci disponiamo in pazienti file indiane dietro i banchetti della Croce Rossa, tutti baldanzosi perché possiamo anche mettere un bel flag fatto alla buona azione natalizia.
E quindi accade che l'estro creativo/festivo improvvisamente ci acchiappi e inizi a guizzare come un salmone nella stagione degli amori. E subito ci ritroviamo connessi a quella fantasia a banda larga, ringalluzzita da qualche tutorial,  che ci insegnerà a sfornare doni amanuensi, freschi di giornata e colla vinilica.
Perché regalare libri, cofanetti benessere o diamanti quando possiamo costruire un regalo ad hoc? Signori e signore la personalizzazione è servita. A buon mercato oltretutto.
Ma non pensate male, adesso. Mica si fa per tirchieria. Si fa per immenso amore verso il prossimo.
Perché un pensiero realizzato con le proprie manine, non ha prezzo.
«Guarda, sto confezionando dei portagioie con i rotoli della carta da cesso? Non sono diviniiii
«Oh, vedessi meraviglie si possono fare  con le scatolette di tonno sgocciolate! I nipotini impazziranno!»
Siete atterriti ora? No, suvvia. Una speranza c'è. Può essere che voi siate creature predilette dal fato e la maledizione dei doni hand made non si abbatta su di voi. E che il massimo della creatività che vi arrivi sia una pioggia di banconote da cinquanta piegate in simpatici – e graditissimi – origami.
Ma non cantate vittoria troppo presto.
Per la legge del contrappasso potreste beccarvi un altro ceppo del virus creativo, che intanto prolifera senza scampo: recite, balletti e cori natalizi.
Perché è così che funziona: allo scoccare dell’Immacolata qualcuno, anche il più insospettabile – parente, amico o conoscente – verrà da voi e cercherà di trascinarvi in qualche cappella gelida a battere le mani a ritmo di gospel, fingendo entusiasmo per quei cori di visi pallidi che la nostalgia dei Neri per Caso vi viene davvero.
E poi c’è Lei, La Rappresentazione per antonomasia: Il Presepe Vivente.
Che la viviate, o l'abbiate già vissuta, da figli, genitori, nonni o nipoti in fondo lo sapete: comunque vada sarà una tragedia.
Riflettiamo un attimo sull'assegnazione dei ruoli.
Dunque, se sei un maschietto adolescente e ti tocca Gaspare, Melchiorre o Baldassarre ti è andata bene. Te la giochi con il fascino da Tuareg, e se hai una parrocchia con un buon ISEE ci scappano pure un paio di giri del quartiere sul cammello. Che baccagli da paura.
Se sei un genitore e devi impersonare Maria o Giuseppe, ti va di lusso: stai al caldo dentro la capanna, illuminato dalla cometa, adorato dall’arcangelo e dalla folla in visibilio. Devi solo spenderti un dieci euro in mentine per combattere l'alitosi di bue e asinello, e il resto è fatto.
C'è chi se la passa decisamente peggio.
I pastorelli per esempio. Può ferire lo so, ma devo dirvelo. I pastorelli sono un mero riempitivo.
Un po' come la paglia nei cesti di Natale.
Ma hanno un'importanza molto strategica. Il pastorello è spesso l'unica e ultima speranza a cui i genitori si abbarbicano per evitare l'accampamento culinario del parentado. L'agognato pass  verso il  Liberaci dalla vigilia e amen.
Se avete visto genitori in coda fuori dalle parrocchie dall’avvento in poi, sappiate che sono lì per chiedere una grazia. O quasi. E cioè che al loro piccino sia assegnata una parte nel presepe vivente. Una qualsiasi.
Per farlo sono disposti a tutto. Anche a vestire di una lupetto color cacca e uno smanicato in finto agnello il loro adorato primogenito.
«Eh, mi spiace, i ruoli sono già stati tutti assegnati.» tentenna imbarazzato il prelato a Genitore Disposto a Tutto
«Ma suvvia, Paolino è tanto carino. Non si può aggiungere un angioletto?»
«Un angioletto? Impossibile! Per i putti c'è una lista d'attesa fino al 2025.»
«Eh non so... un re magio che Paolino ama talmente tanto gli animali?», rilancia Genitore Crucciato.
«No, no quest'anno i cammelli li facciamo di cartone. C'è crisi.»
Ma Genitore non demorde, insiste. Lascia intendere che Paolino potrà essere concesso in comodato d'uso ai fini parrocchiali fino alla quaresima.
A quel punto il prelato riflette. La proposta è allettante. Non è che i chierichetti lì trovi così sugli alberi. Ultimamente sono più richiesti degli sviluppatori Java.
«Va be’, forse un posto per Paolino lo posso trovare. Ci sarebbe una parte da pastorello. Tanto, uno più, uno meno.»
E allora Genitore Felice parte in quarta, arraffa lo smartphone e un godimento paragonabile solo a quello di Sally a tavola con Harry a presentazioni già fatte con  manda la sua missiva via chat di gruppo Parenti in Festa: A causa di impegni pregressi non ci sarà possibile organizzare la consueta festa di natale per voi carissimi e amati zii, prozii, cugini e consanguinei annessi. Paolino è stato coinvolto nel presepe vivente. Farà il pastorello! Sarà per il prossimo anno. 
A cui segue il definitivo e liberatorio "La famiglia Rossi ha abbandonato".
Ma intanto le feste corrono ed eccoci giunti alla sera della Vigilia: Paolino, con il bastone della campagna del nonno, buonanima, trema al freddo e gelo accanto ad altri sciagurati come lui. Gli trotterellano intorno tre barboncini dal pelo cotonato più del solito, per tramutarli in ovini credibili. (come detto prima c'è crisi e anche le pecorelle sono sold out).
Decide che dovrà essere assolutamente più buono perché una sciagura del genere non si può spiegare. Spera almeno che Gesù Bambino apprezzi il sacrificio e sotto l'albero gli faccia trovare l'iPhone8.
Ma guardando mamma e papà si sente in colpa: dovrebbe  imparare a vivere come loro il Natale, con lo stesso spirito.
I genitori di Paolino, in effetti, la luce negli occhi ce l'hanno davvero. Quest'anno gli è andata di lusso. Il veglione se lo sono  già fatto la notte del Black Friday dove hanno raccattato anche un huawei rigenerato ma tanto Paolino deve imparare l'umiltà e quindi ne ha che basta e avanza.
Ora si fanno una cantata veloce di Tu scendi dalle stelle, qualche manciata di segni di pace e poi, svelti svelti, quatti quatti tutti a casa.
A mettere on line le foto di Paolino.

 E a sbafarsi il panettone, quello buono eh, in beata solitudine. E perfetta beatitudine.

Copyright  Monica Coppola
Immagine realizzata da Alice Basso

giovedì 12 luglio 2018

Decadance di Miranda Martino





Alzi la mano chi declina il proprio anno come fosse un anno scolastico. Presente! Per me tutto finisce il   31 /08. Capodanno è il primo di settembre mentre gli ultimi giorni di agosto segnano il momento del bilancio: la pesa dei mesi trascorsi, il ricordo di ciò che di buono c’è stato, l’accantonamento delle voci in negativo, il revival di una modalità infida eppure attraente, come una palude travestita da laghetto di montagna: la lista dei buoni propositi. Ora però siamo a luglio e non è ancora tempo di bilanci ma di bilancia. Chi è quella scamorza riflessa nel mio specchio? Chi è quello sharpei in mutande e reggiseno che mi fissa come se mi conoscesse? Sono io. Già. Un girovita mollemente terrazzato che neanche le Cinque Terre. Se è vero che “mens sana in corpore sano” dalle mie parti la comunicazione mente corpo è interrotta. È caduta la linea. Come recuperare? Mi ponevo questa domanda un giorno che, trascinandomi in un negozio di videogame, cercavo un gioco da regalare a mio figlio. Qui deve essere accaduto qualcosa di inspiegabile, un momentaneo calo di tensione dei neuroni. Al risveglio ero alla cassa con in mano una copia di “Just Dance”. So che molti di voi conoscono questo gioco della Play Station ma lo descriverò a beneficio di chi, come me, vive nelle tenebre tecnologiche. Ci si pone davanti allo schermo tenendo saldamente in mano una sorta di cono gelato luminoso. È un controller a sua volta collegato ad una webcam che rileva i vostri movimenti. A questo punto si sceglie un brano e si balla, possibilmente seguendo la figura guida sullo schermo e cercando di imbroccare i movimenti giusti. Se ci riuscite la consolle vi elogerà come un mamma inglese che commenta la pagella del figlio secchione: good! Perfect! Innocuo nevvero? No. Quello che pare un karaoke danzereccio è un sanguinario harakiri.
Ho acquistato “Just Dance” con due obiettivi:
a) divertirmi con mio figlio                                                                 b) dimagrire divertendomi.
Avete notato che ho declinato per ben due volte il verbo “divertirsi”? Quante aspettative disattese. Sì perché:
a) mio figlio non è interessato al ballo e, quando mi asseconda, vince tutte le sfide perché ha capito che basta muovere la mano che tiene il controller nel modo giusto per prendersi i complimenti della consolle e accumulare punti. Per cui, interno giorno: un adulto e un bambino davanti allo schermo. Musica a palla. L’adulto si dimena come preda di un rito sciamanico e non prende un movimento, il piccolo sta fermo e muove solo la mano che tiene il controller. A voi la deduzione sullo stato mentale di entrambi.
b) ballare così non fa perdere un etto. Garantito. Ci guadagnate però tutti i dolori articolari censiti dal Ministero della Sanità .
Chi me lo ha fatto fare?
1981: Heather Parisi e le sue “Cicale”: ricordo che guardavo questa Barbie animata cantare: “delle cicale ci cale ci cale ci cale… della formica invece non ci cale mica…” e provava ad imitare la sua coreografia, più facendo le smorfie con la faccia che eleganti gesti motori.
1987: “Dirty Dancing”. Baby. La fanciulla bruttina e legnosa che impara a ballare e conquista il bello del villaggio turistico. Baby sei stata la mia eroina, la rivincita delle simpatiche vs le strafighe, la rivalsa al grido di: “nessuno può mettere Baby in un angolo!!!” Eccheccazzo! (N.d.A).
Ma ciò che ha realmente cambiato la mia esistenza è stato il film “Flashdance”: la storia di una saldatrice ballerina. Ecco, io ho più o meno l’agilità della saldatrice. Spenta. Ah Jennifer Beals, quanto ti ho invidiata e adesso che mi dimeno senza neanche la dignità dei tuoi scaldamuscoli, mi sento come Nanni  Moretti in “Caro Diario”:
(…) in realtà il mio sogno è sempre stato quello di saper ballare bene. Flashdance si chiamava quel film che mi ha cambiato definitivamente la vita. Era  un film solo sul ballo. Saper ballare. E invece alla fine mi riduco sempre a guardare, che  è anche bello, però è tutta un’altra cosa. 
Ogni giorno indomita provo a superare i miei limiti fisici, imponendomi un rigido protocollo: zampettare da una piastrella all’altra, stillare sudore e paralizzarmi dal dolore. Dalle stille alle stalle. Acciaccata vedo le stelle, talvolta anche la luna e mi sovvien Leopardi: la vita è fatica e lui lo ha ben scritto, incastonato in un fisico che pareva una beffa.
Che fai tu, luna in ciel? dimmi, che fai, silenziosa luna?
(...) Ma tu mortal non sei, e forse del mio dir poco ti cale.                                                                                                   

Cicale Cicale Cicale.

Copyright Miranda Martino

martedì 5 settembre 2017

La metamorfosi (e la Vita Nuova).




E' accaduto qualcosa che non so spiegare.
Sono partita, beata e contenta, verso la mia estate sarda e Gabbanica  con la speranza di trovare al mio rientro una Vita Nuova.
In parte, sono stata accontentata.
Che ci fosse qualcosa di molto diverso l'ho scoperto, anche io come Gregor Samsa, il mattino in cui mi sono ritrovata a tu per tu con gli abiti lasciati nell'armadio: dopo settimane di parei multicolori (indossati molto più stile cappio à porter che bella polinesiana di Gauguin) era giunto il momento di rientrare nel tran tran quotidiano. E nei miei panni.
Ri-entrare, appunto. 
Impresa che stavo tentando anche con l'ausilio di tecniche yoga e apnea, senza produrre alcun risultato: la cerniera del tubino nero, che avevo scelto di indossare,  si era mossa a stento per pochi, faticosissimi, centimetri ed ora si rifiutava di salire più a nord.  
A sud dell'abito la situazione era pressoché invariata e,  sui  rilievi gluteo-tondeggianti, si intuiva un principio di smottamento delle cuciture laterali.
Il vestito, in modo inspiegabile, si era ristretto durante la mia assenza!
Davvero una curiosa mutazione...
La stessa che sembrava affliggere anche gli adorati pantaloni capri che, proprio all'altezza del giro vita, ora  presentavano una distanza incolmabile, come se asola e bottone fossero due amanti estivi, residenti agli antipodi dello stivale, costretti a dirsi addio per sempre.
Ma, come insegna il buon Sherlock, due indizi non fanno una prova e allora eccomi, sull'orlo dello strappo e  del mistero, alla ricerca del terzo elemento d'indagine: l'abito provenzale a campana.  Oh, sì,  proprio quello che avevo indossato ad inizio vacanza per inaugurare la mia prima Sagra di paese!
La prima di una lunga serie...
Al solo pensiero ecco che mi sovviene il crepitio del maialetto sulla brace, lo sfregolio della salsiccia con i malloreddus, la morbidezza arrendevole delle sebadas, il vivace solletico del pecorino: tutta l'allegra Banda Bontà che ha alleggerito la mia estate.
Del resto un diversivo alla canicola andava trovato. 
E, a proposito, ecco che la tv annuncia che è in arrivo Polifemo, la settima ondata di caldo. Dopo Caronte e Nerone ora tocca a lui.
Insomma non c'è tregua. Questi anticicloni nordafricani ormai sono dappertutto.
Vuoi vedere che mentre ero in vacanza si sono intrufolati abusivamente in casa e mi hanno manomesso i vestiti? Sì, devono essere stati loro.
Oppure quelle brioscine -meteoriti che ora piovono dovunque, sbatacchiando ironie intorpidite e coscienze, più candite che candide, che ci asfissiano anche peggio degli anticicloni.
Comunque tutte queste riflessioni hanno messo un certo languorino.  Mi sa che l'enigma del restringimento tessile dovrà aspettare.
Chiudo l'armadio, annodo un pareo in grado di circumnavigare la mia vita- nuova e vado a prepararmi un piatto di culurgiones. 
Che a pancia piena il capro espiatorio si trova sempre meglio. 
Che a mente vuota...

Buondì a tutti ;)

sabato 1 luglio 2017

Il mito nella caverna. Ovvero, la coppia al cinema.


Ed ecco qui che, a grande richiesta torna a farci visita Massimino.
E ci racconta cosa pensano realmente i nostri compagni di vita (e di multisala) quando li costringiamo a sorbirsi in Full HD la visione dei nostri perduti sogniOrmai sbiaditi come le mutande (sempre le sue, per inconsapevole vendetta) al secondo lavaggio. Perché anche i tessuti come i cinema, si sa,  non sono più quelli di una volta. 
Gli agognati templi dell'amore, in cui senza passare dalla tortura del posto assegnato, ci si rifugiava nelle poltroncine in ultima fila, sfiorando il gusto del proibito e delle patatine al formaggio portate da casa. 
Ma solo il lunedì quando il biglietto costava meno. 
Lettori e lettrici, buio in sala e parola al Dé Gorgus.
Buona Visione!




Entrare con la fidanzata nella hall luccicante di un cinema multisala ti fa sentire per un attimo come se stessi per sposarti. Il mondo si sta schiudendo davanti con le sue infinite possibilità. Tu stai pensando al sesso. Lei all'amore. E alla fine ti tocca il film d'amore.

Eh sì, perché la scelta del film è stata l’ultima fase della negoziazione che si è scatenata nell’agone duale sin dal venerdì pomeriggio.
Quando già sai che alla fine lascerai a lei la scelta del titolo. Perché lei il film lo selezionerà sicuramente più intelligente del tuo. D’altra parte, di cosa potrebbe parlare con le colleghe il lunedì se accettasse la domenica sera di vedere il tuo Fast & Furious 8?

Il problema è di cosa possa parlare io coi colleghi quando m’è toccato sciropparmi La La Land. Meglio presentarmi in ufficio con gli occhiali scuri, dichiarando in stile politico un’uveite del fine settimana, con la speranza che nessuno mi abbia individuato nel multisala.

Ma è già il concetto di multisala che mi indispone. Voglio dire, da ragazzino, a Livorno, le sale erano tutte in centro. Si prendeva la bicicletta, si faceva il giro degli amici, si arrivava in 10 minuti sudati e contenti a vedere i film fantasy, o western. Ora a Livorno, la sera in centro, è rimasta l’ambientazione da film western: polvere, qualche ubriaco per strada e balle di rotolacampo che passano portate dal vento.

Perché ora i cinema delle città italiane sono fuori dalle città italiane, nelle zone degli orrendi centri commerciali. Dentro hanno colori sparati, l’odore di burro fuso e disinfettante nell'aria, tipo Autogrill, o mensa dell’ospedale.

E poi le casse. Tutte col display ansiogeno, quello che lampeggia il numero di posti rimanenti, in progressiva diminuzione. Che alla fine, nella sensazione di star perdendo l'ultima chance nella vita, ti vien voglia anche a te d'andare a vedere La La Land!

E allora, sgomitando, compri i due biglietti. Coi posti assegnati automaticamente: i migliori, computerizzati, indiscutibili. Per scoprire poi che dentro sei in una platea da 300 poltrone, e ci sono solo 7 coppie a sedere. Però tutte piazzate obbligatoriamente in fila, una davanti all'altra.

Così, dopo la pedata d’unghia d’alluce sullo scalino e l’imprecazione soffocata, ti sforzi per vedere al buio il numero sul biglietto. Finché non lo illumini con la torcia del telefono e lei ti scorge l’ultimo whatsapp che hai inviato agli amici prima d’entrare: “Che palle, m’è toccato andare a vedere La La Land!”.

E mentre lei ti guarda male, vi sedete al vostro posto, rigorosamente dietro l’ultima coppia, giusto in tempo per le pubblicità finali, quelle dei negozi e delle società di provincia.
Le réclame con l'immagine fissa, la belloccia truccata male, la scrittina verde con la partita IVA e la ragione sociale dell'attività: prima il cognome e poi il nome del proprietario.

Ma finalmente parte la musica e comincia il rutilante La La Land. E dopo due ore e un quarto, quando scorrono i titoli di coda e si riaccendono le luci, l'effetto è quello di essere sorpreso nell'intimità, di svegliarti nel tuo lettuccio con un mondo di estranei che ti guarda. Tenti di commentare qualcosa d’intelligente, fingendo d’esser stato sveglio. Ti alzi coi pantaloni sommersi dai popcorn che ti sei rovesciato addosso. Provi a riacciuffarne un paio belli grandi dall'incavo della poltrona, ma lei ti fulmina con lo sguardo

Così ti avvii all'uscita, che credi sia l'opposto dell'entrata. Eh no! Perché un tempo l'uscita, trionfale, era dalla stessa parte dell'ingresso. Ma con questi maledetti multisala sotterranei, siamo pedine di un processo industriale: esce uno, entra l'altro.

E allora dopo il film ti fanno salire in fila indiana dai bugigattoli, dalle scale della vergogna, dagli antri fetidi. Come se degli amici ti invitassero a casa e dopo averti offerto la cena, ti dicessero: "Vabbè, ora arrivano altri ospiti, ti spiace levarti di torno? Già che ci sei, pìgliati il sacchetto dell’umido. Passa pure di qua, dalle cantine".

Questa è l’uscita dal multisala. Quando hai finito di risalire dagli inferi, improvvisamente non si sa come ti ritrovi per strada in un angolo buio in mezzo ai bidoni della spazzatura, a 500 metri dall’ingresso del cinema.

E da lì riesci a scorgere a malapena la hall luccicante e il grande cartellone coloratissimo: “Imperdibile! Oggi Fast & Furious 8”.

Copyright  Massimino Dé Gorgus


Ecco dunque la sintesi del "Senso di Massimino per i Multisala".
A dire il vero qualcosa in proposito l'avevo scritto anche io. E lo potete leggere QUI.

E voi, invece, cosa ne pensate? Potete dire la vostra qui o su Twitter 
direttamente a Massimino @MDeGorgus e alla sottoscritta @violavertigini

Tanto, con questo caldo, non penserete mica di andare al cinema no? ;)


martedì 20 giugno 2017

Le Olimpiadi dell'Elastico.



Quando ero piccola l'estate spuntava insieme ai pantaloncini da basket, le code più alte per non sudare, e le magliette con gli stampi che scomparivano al primo lavaggio.
Aveva il sapore dei ghiaccioli (per i torinesi stick) comprati con gli spiccioli che la mamma mi lanciava dal balcone, appallottolati nei tovaglioli di carta.
Chiudevano le scuole e palpitavano i cortili. Il divieto di giocare a palla ancora non c'era e, quando c'era, non se lo filava nessuno.
La mia estate la trascorrevo lì, a scorrazzare intorno a quel cerchio di cemento, chiuso da un cancello che si apriva al primo soffio di vento. In quel cortile mi sbucciavo le ginocchia o le banane a merenda quando i soldi per il gelato non c'erano. Coltivavo amicizie e anticorpi scambiando chewingum di seconda mano (per i torinesi cicles)  o bevendo a canna succhi di frutta barattati a metà. Anche da bambini valeva sempre la stessa regola: l'erba del vicino è sempre più verde (e quindi la sua merenda più buona della tua).
La cosa peggiore che poteva capitare era una secchiata d'acqua da qualche balcone, accompagnata da parole che era meglio non ripetere. Se le mamme ci sentivano (e ci sentivano sempre perché le mamme degli anni Ottanta erano dotate di orecchio bionico) scattava il castigo e in cortile non ci facevano scendere più.
I bambini più fortunati partivano con i nonni per tre mesi di villeggiatura oppure andavano in Colonia.
Avrei voluto vedere anche io questa benedetta Colonia di cui tutti parlavano.
La immaginavo una versione estiva del Paese dei Balocchi: mare, sole, castelli di sabbia e gentili signorine pronte a esaudire ogni desiderio.
I miei non mi mandavano mai però. Mia  mamma  diceva che per andare in Colonia  serviva  tutto un corredo monocromatico di mutande, calzini, magliette e quant'alto che costava un patrimonio. Con tutti quei soldi, ci usciva una settimana di campeggio a ferragosto. E poi io mi divertivo così tanto in cortile!
Il che era anche  vero almeno fino a quando si giocava a Nascondino, Ce l'hai, o Strega tocca colore; diventava discutibile quando ai giochi d'azione subentravano le avventure delle Barbie, spesso finte e con un abbigliamento precario ai limiti della decenza; si trasformava in tragedia quando spuntava lui: l'Elastico.
Perché sempre sul più bello arrivava qualche bambina nuova con un ghigno furbetto, un elastico da mutanda lungo pressappoco un metro e mezzo e uno spirito atletico che aveva deciso di palesarsi. E, come se niente fosse, proponeva gare di salto con variante singola o a coppia, a eliminazione diretta.
Le Olimpiadi dell'Elastico si inauguravano così.
Per  me, che non andavo oltre i cinque minuti di gloria del salto al polpaccio, iniziava l'inferno.
Mi tramutavo in qualcosa di simile alla Bambina Sfinge: in stato semi catatonico dovevo passare interi pomeriggi a fare da palo umano per le  amichette saltatrici. Che,  nei giorni più lieti,  si prodigavano a zampettare allegramente anche fino al tramonto.
Per far passare il tempo fissavo i balconi dei palazzi di fronte e fantasticavo sui panni stesi.
Avevo notato che i bucati del lato destro erano sempre più allegri. Volteggiando nell'aria, diffondevano note delicate di Coccolino. Illuminavano, con le loro tinte vivaci,  i terrazzini degli appartamenti più grandi, quelli con due camere e tinello.
Sul lato sinistro, riservato alle camere e tinello, i fili per stendere invece si rimpicciolivano come i metri quadri degli alloggi. Dai balconcini penzolavano soprattutto tute, blu o da ginnastica, intervallate con qualche canottiera a costa larga che profumavano di soffritto nei giorni feriali e di ragù in quelli festivi.
Far asciugare i panni al sole era comunque un lusso spesso riservato solo ai piani alti del condominio.
Quello dove abitavo io aveva cinque piani per cui, sui panni stesi dei piani precedenti poteva piovere un po' di tutto, a seconda delle stagioni: semi di anguria o noccioli di ciliegia nei mesi estivi e gusci di nocciola o bucce di mela in quelli invernali. Le briciole, invece, erano un evergreen.
I più fortunati erano gli abitanti dell'ultimo piano: i loro bucati dovevano fare i conti solo con le cacche dei piccioni. Ma, se mettevi una girandola colorata, si spaventavano e se ne migravano altrove,  alla ricerca di altre toilette
Comunque, proprio quando avevo preso gusto alla mia Indagine dei panni stesi, le Olimpiadi dell'Elastico vennero interrotte. La proprietaria dell'elastico annunciò fiera che se ne andava in Colonia.
Si chiamava Romina, era capace di saltare fino all'altezza del collo, aveva la Barbie vera e abitava al quinto piano.
Certa gente, pensai, ha davvero tutte le fortune.

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