Che la mia pancia vivesse di vita propria l’ho capito molto presto.
Quando alle elementari facevamo la gara di verbi ad esempio. Tremavo nel banco, dita incrociate dietro la schiena, sperando in futuro semplice o imperfetto. Ma più nel primo.
E intanto lei, puff, puff si gonfiava come un palloncino.
Io non volavo però. Anzi, quasi appassivo su me stessa, piegata in due sotto la morsa di quei pugni invisibili.
«Mi fa male la pancia», dicevo rientrando a casa, e subito mia madre mi trascinava dal pediatra, un omone grosso e grigio, che me lo faceva venire ancora di più.
Quando parlava emetteva parole filamentose, legate l’una all’altra da un filo sottile e biancastro.
I miei occhi si inchiodavano sfacciati a quella bocca, proiettata in 3D nella mia mente, con un irresistibile effetto splatter da cui non riuscivo a staccarmi.
Di solito ci riuscivo solo quando mi arrivava in gola quel coso simile allo stecco del gelato, a cui faceva seguito un flash nelle pupille.
Ogni tanto mi chiedeva di tossire a comando, un dischetto di acciaio freddo sgusciava sotto la canottiera arrotolata.
Se ero abbastanza brava mi rispediva a casa con una caramella tonda allo zucchero. Talmente dura da spaccarsi denti da latte e non.
Visto che quei pellegrinaggi da Doctor Patina non servivano gran che, mia madre optò per una soluzione più drastica: le visite specialistiche dall’Allegro Chirurgo.
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