Vado veloce, corro come un Frecciarossa.
Ma il tempo è poco, sempre troppo poco.
E soprattutto passa troppo in fretta.
Specie se hai già 40 anni suonati e senti
che, in un modo o nell’altro, metà della tua vita te la sei già sgranocchiata
come un pacchetto di fonzies: se ti è andata bene ti sei leccato le dita,
altrimenti hai goduto solo a metà. È la fretta di agguantare il tempo per
dirgli ancora qualcosa di noi prima che scappi, per urlargli in fretta dal
finestrino che "Ehi, guarda che non puoi svignartela così perché io voglio
ancora fare questo, e anche quest’altro!”
Ma quello se ne frega, passa e fugge lo
stesso.
Tu sei lì, davanti allo specchio che
tormenti un comedone e cerchi di capire la destinazione d’uso del Tampax; l’attimo dopo sei ancora davanti
allo specchio, solo che ora del Tampax non sai più che fartene , hai le zampe
di gallina, le rughe di espressione e rimpiangi la spensieratezza dei tuoi pori
otturati.
La scorsa settimana Madonna è tornata ad
esibirsi a Torino.
Su Facebook sono comparsi i primi post del
suo Rebel Heart Tour e io mi sono
accorta che, in una passata di mascara waterproof, era trascorso qualcosa tipo un
quarto di secolo, da quando, con tanto di fascia di pizzo sintetico stretta sui
capelli ossigenati a colpi di Crystal Soleil e guarnizioni gommate fino
all’avambraccio, mi dimenavo sulle note di Material Girl in compagnia di
adolescenti arruffate e sognatrici come me.
Erano i tempi del suo “Ciao Torino? Siete
caldi?”: noi la guardavamo esterrefatte, la stessa anima candida delle
pastorelle di Lourdes, con gli occhi imbrattati di matita dozzinale fissi su
uno schermo paffuto come le nostre guance, e i piedi a terra, ma non troppo,
come è giusto che sia a quindici anni.
E poi i quindici sono diventati diciotto,
attesi ardentemente per poter morsicare anche la libertà di andare ad un
concerto dal “vivo". Che a casa mia prima dei diciotto eri agli arresti
domiciliari e tutt’al più potevi andare a brindare a capodanno con la Ben Cola nei muffosi sotterranei
dell’oratorio.
Però prima ti dovevi confessare eh, se no
manco ti facevano entrare.
Il mio cuore neo maggiorenne iniziò a
palpitare sulle note di Venditti, forse anche perché la “Notte prima degli
esami” si avvicinava. La mia fervida fantasia mi portò a commettere il primo
passo falso con la specie maschile: poi ne sarebbero seguiti molti altri...
Con occhi adoranti chiesi al mio
fidanzatino di allora di partecipare al mio “battesimo musicale”.
Già mi vedevo due cuori (anche di panna
perché era estate e il cornetto Algida era il simbolo nocciolato con cui
scambiarsi amore eterno) un battito, tante canzoni.
Sfortunatamente lo sventurato rispose
qualcosa del tipo: "Piuttosto traduco Catullo tutta notte ma Venditti
manco morto." Reso esplicito in termini assai meno eruditi perché eravamo
adolescenti di periferia e da noi il classico non lo faceva nessuno. Andava
per la maggiore un Istituto Superiore che sembrava un videogame, volgarmente
conosciuto con l’acronimo di P.A.C.L.E.
Che stava per Perito Aziendale e
Corrispondente in Lingue Estere.
In pratica uscita di lì, se eri molto
brava, potevi fare l’impiegata poliglotta. Se ti andava male potevi giocartela
come cassiera, che tanto il Mostro della GDA avanzava portentoso ed era pronto
ad accogliere tutti sotto i suoi tentacoli.
Se invece eri un maschio allora ti
aspettava la FIAT.
Anche io sono stata figlia della FIAT e
sono cresciuta pensando che questo enorme stabilimento che dominava corso
Agnelli fosse un Mondo Parallelo che si risucchiava tutti i papà del mondo a
fasi alterne: dalle 6 alle 14 o dalle 14 alle 22.
Quelli più cattivi li intrappolava dalla 22 alle 6 così
non potevano nemmeno dare la buonanotte ai loro bambini.
Però la FIAT mi voleva bene, perché a
Natale potevo andare in giostra gratis e mi faceva anche un regalo, scelto in
base all’anno di nascita.
Ecco, io mi beccavo sempre delle gran
cagate, tipo il piccolo chimico, che veniva immediatamente riciclato sotto
l’albero dei miei cugini maggiori perché tanto io avrei fatto esplodere tutto.
Me ne tornavo a casa arrabbiata e delusa
desiderando i regali di chi era nato nell’anno “giusto”.
Mi sono passate sotto il naso non so
quante Barbie e walkman che non ho afferrato per un soffio: perché
il tempo è così, si fa beffe di te anche solo per un anno in più o in meno.
Quando sei piccola pensi sempre che il
tempo passi troppo lentamente.
Sei invaso da un’effervescenza, una smania
di “fare cose” e invece i grandi ti dicono "di aspettare”.
Subito dopo l’Immacolata, ad esempio, a
casa mia iniziava un viavai frenetico di Panettoni & Pandori e però niente,
non ne potevi assaggiare nemmeno uno. Perché “Si doveva aspettare”.
Anche per mettere Gesù Bambino nella
mangiatoia dovevi aspettare rigorosamente la mezzanotte del 24
dicembre.
L’effetto devastante di questi due divieti
era che, passate le Feste ti ritrovavi a inzuppare nel latte panettoni fino
alla Pasqua successiva dove, i parenti più arditi, tentavano di tagliare le
fette di traverso spacciandole per Colomba.
Perché non si buttava niente.
Il bambinello invece finiva che, non
potendolo sistemare nella sua bella mangiatoia, lo infilavamo distrattamente da
qualche parte. Poi, puntualmente non ci ricordavamo dove.
E scattava il dramma. Partivano un
putiferio di invettive, di accuse reciproche, guarnite
con tanto di recriminazioni d’annata, così potevamo anche mettere il flag
all’atto quinto del Santo Natale
ovvero “Scannamento sotto l’albero di luci intermittenti”.
Poi, siccome a Natale siamo tutti più
buoni, prima dell’Epifania mio padre scendeva in cartoleria e comprava un nuovo
bambinello. Tanto
dopo il 25 te li tiravano dietro sottocosto.
Oggi guardo il Natale che arriva
attraverso gli occhi delle mie “ragazze”.
Attacchiamo la pompa idrovora del pozzetto
con l’acqua corrente, le
casette con la fiamma che sembra viva e mi torna in mente la bellezza di un
laghetto costruito con un foglio di carta stagnola rubata di nascosto dalla
credenza.
Mi ricordo la bellezza dell’albero
spelacchiato e sintetico, sempre troppo basso, anche se io non sono mai stata
un gigante.
La tenerezza delle pecorelle azzoppate e
dei maiali: chissà perché, quando andavi a cercare le statuine nuove,
angioletti non ne trovavi manco mezzo ma scrofe sempre in abbondanza.
Mi incantavo anche davanti al ventre dilatato
del suonatore di zampogna che trovavo delizioso, anche se sembrava si fosse
tracannato due pinte di Bionda prima di partire per Betlemme.
E poi c’erano i cancelletti e i ponticelli
in ferro battuto che costruiva il mio papà.
Io andavo a scuola nelle casette
prefabbricate perché c’erano troppi bambini e l’edificio era troppo piccolo.
Così a volte facevamo i turni ed uscivo alle diciotto, come i papà dei bambini
“che stavano bene” (i fortunati pargoli dei white-collar worker, avrei scoperto in
seguito).
Che
non portavano la tuta blu ma camicie dai colletti bianchi, inamidati.
Mio papà no, lui era una tuta blu: ma la indossava con
un’eleganza e una dignità che è sempre stata parte della sua vita.
La sua creatività però era intrisa di
tutti i colori e le cromie dell’Universo.
E sono quelli i colori che mi ha
trasmesso.
A me che inizio a scartare i panettoni
appena cade la prima foglia d’autunno.
A me che il bambinello lo metto subito
così ci fa compagnia e non me lo perdo chissà dove.
A me che in parte anche se sono “grande”
voglio continuare, disperatamente, tenacemente, orgogliosamente, a credere nei
sogni.
Perché so che lui avrebbe voluto così.
(copyright Monica Coppola, immagine Maria Teresa Di Mise, editing Stefania Crepaldi)
Quante verità cara Monica! Anche mio papà era una tuta blu, non alla Fiat e non a Torino ma questo poco conta. Ora cerco di godermelo perché, come di tu, il tempo vola! Buona immacolata! ;)
RispondiEliminaDani il tempo vole è vero. Ma tu tienilo stretto, abbraccialo forte e lasciati avvolgere. Buona immacolata anche a voi :)
EliminaVorrei dire tante parole, perchè quando si hanno esperienze comuni, quando si è coetanei e si è vissuto nella stessa città verrebbero immente tante parole da dire, tanti ti ricordi...? tanti ma anche tu...? Ma le hai già dette tutte tu :)
RispondiEliminaDavide hai una sensibilità che passa che travalica la tua passione per la scrittura e per la lettura. Sei in gamba ecco. Davvero in gamba.
EliminaSappi che mi hai fatto arrossire, ecco.
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